Covid, viaggio tra gli infermieri in prima linea

“La seconda ondata ci ha nuovamente travolto. Ci siamo fatti trovare colpevolmente impreparati. Ci sarebbe stato il tempo per organizzarsi a dovere e invece si naviga a vista, senza risorse né personale”.

Voci dal Nord. Chi parla così è Nicola, professione infermiere: lavora in un ospedale lombardo. Di morti ne ha visti tanti nella prima ondata: era impegnato in un reparto Covid. Ora sta proseguendo gli studi e, nonostante sia un passo indietro rispetto la prima linea, ha modo di avere uno sguardo privilegiato su cosa sta accadendo: “ci sono lacune organizzative, tante problematiche che non trovano soluzione, a discapito di operatori e pazienti”.

Nicola non è il suo vero nome. La disposizione regionale è di non rilasciare interviste e dichiarazioni se non autorizzate. Nicola rispetta il dettato. Preferisce l’anonimato anche dell’ospedale nel quale lavora. Ma non intende sottrarsi dal denunciare la gravità della situazione che sta vivendo, sovrapponibile a quella degli altri nosocomi lombardi e italiani.

“Comprendo l’incertezza dell’evoluzione epidemiologica, ma avevamo sei mesi per prepararci. Sapevamo che sarebbe arrivata la seconda ondata. Si pensa tanto, talvolta si progetta, e poi o si decide poco e frettolosamente o è un continuo fare e disfare”, dice riferendosi ai vertici aziendali. “C’è uno scarico di responsabilità disarmante, ma la cosa più assurda è il fatto che chi lavora in ospedale viene poco coinvolto nelle scelte strategiche. Ci troviamo continuamente spiazzati di fronte a uno scenario in cambiamento, a decisioni e informazioni poco condivise”.

L’infermiere Nicola fa un esempio per spiegare meglio che cosa intende: “Arrivano i ventilatori, ma nessuno ci chiede se possono andare bene per le nostre realtà lavorative, dove potrebbero addirittura mancare le maschere e gli accessori necessari a farli funzionari”.

Nicola ha iniziato a lavorare appena laureato e, a distanza di alcuni anni trascorsi in corsia di un reparto di degenza ordinaria, ha maturato una discreta esperienza e conoscenza dell’ambiente sanitario. Un tempo sufficientemente lungo per capire quali sono le criticità del sistema: “Ovviamente i problemi dipendono anche dai tagli costanti. Le risorse non ci sono. Quello che stiamo vivendo ora è il risultato di vent’anni di tagli e di mancate programmazione e formazione del personale”. Il personale, altro tasto dolente. “Possono anche trovare i posti letto ma se in ospedale non c’è il personale per assistere i pazienti, quei posti letto sono inutili e gli ospedali sono scatole vuote”.

Nicola spiega ad esempio che la formazione degli infermieri per operare correttamente in un reparto di rianimazione dura in media sei mesi: “Non si tratta di compiti semplici che possono svolgere tutti. Serve tempo e preparazione, per il bene dei pazienti. E invece di usare questi sei mesi di calma relativa che abbiamo avuto a disposizione per formare il personale, eccoci qui, nel mezzo del caos”. E il personale operativo diminuisce perché anche gli infermieri si ammalano di Covid: “Se si infettano, devono essere rimpiazzati, ma se non ci sono professionisti o nuove assunzioni, restano dei buchi”. Incolmabili, in un momento come questo.

La voglia di fare è tanta: “La prima fase è stata dura. Un periodo di grande stress, ma anche di grande reazione. Abbiamo imparato a gestire un paziente a 360 gradi perché, anche se eravamo un reparto Covid, dovevamo affrontare tutte le criticità che una persona ricoverata porta con sé. Professionalmente è stato un arricchimento”. E cosa accade ora, nella seconda ondata? “Prevalgono l’incertezza e la paura. La stanchezza e la rabbia. Continuiamo a dare il meglio, ma siamo consapevoli degli errori commessi ed evitabili. Invece si ripetono”. E questo per Nicola, e per chi come lui fa questo lavoro, è assolutamente frustrante: “È come se non vedessimo la luce in fondo al tunnel”.

A volte si dimenticano le ricadute psicologiche di un lavoro molto delicato: “Qui si gioca con la vita delle persone come fossero pedine di un intricato scacchiere e gli operatori sono spesso considerati solo numeri”. Anche a causa, secondo Nicola, di un modello di sanità privata che in Lombardia la fa da padrone: “Il sistema pubblico sta andando al collasso perché i presidenti della Regione hanno palesemente voluto investire in misura prevalente nella sanità privata. Ma come fa a reggere un sistema pubblico senza investimenti, considerando anche che la Lombardia è la regione più popolosa?” Domanda retorica, della quale conosciamo la risposta, ma che pesa come un macigno sulle vite dei pazienti e di chi se ne prende cura.

tratto da www.libereta.it

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