Il lavoro secondo Emanuele Macaluso

l lavoro: un faro sicuro per chi crede nella democrazia e spera nel cambiamento

Sei entrato nel Pci in clandestinità e nella Cgil con la Liberazione che in Sicilia era avvenuta già nel ’44. Due anni dopo eri segretario della Camera del lavoro di Caltanissetta, la tua città. E nel ’47, al congresso del sindacato siciliano, sei stato eletto segretario regionale…

“… Su proposta di Peppino Di Vittorio…”

… E da allora, per dieci anni, hai vissuto le grandi lotte per la terra, l’eccidio di Portella, le dure lotte degli zolfatari e quelle non meno difficili degli operai dei Cantieri navali di Palermo, solo per citare alcuni momenti chiave della tua esperienza nella Cgil siciliana. Nel rivivere questi momenti, come ti chiedo di fare, immagino che consideri il lavoro come strumento di emancipazione personale e collettiva.

Certo, e aggiungo: il lavoro appunto come faro sicuro per chi crede nella democrazia e nella lotta per il cambiamento. Ripenso, in quella provincia di Caltanissetta, alle epiche lotte nelle miniere, che erano state allagate per colpa dei padroni. Davvero epiche lotte per rimettere in moto le pompe e consentire la ripresa della estrazione e della lavorazione dello zolfo. Le prime manifestazioni di piazza, vietate dagli inglesi, ancora occupanti: a Sommatino molti minatori furono arrestati, e uno di loro fu spedito al confino in Africa. Anzi fu costretto a tornarci: ce lo avevano già mandato i fascisti! Un paradosso emblematico. E ripenso alle caratteristiche esemplari di Caltanissetta, città in relativa buona occupazione e compattezza sociale grazie agli zolfatari (all’inizio ne ero stato il responsabile), agli scarpellini, ai muratori, agli impiegati, ai giovani intellettuali. Ebbene, il “segreto” di quella compattezza sociale era la forte, generale sindacalizzazione: panettieri, mugnai, pastai (la cosiddetta arte bianca), edili, persino i barbieri erano in gran parte iscritti alla Cgil allora unitaria. Proprio Di Vittorio, dopo quel congresso, ne scrisse sull’Unità, citando il nisseno ad esempio di una struttura portante di un centro – il sindacato – animatore di democrazia. E in una zona in cui la mafia la faceva da padrona e la combattevamo tenacemente già dal ‘44.

(…)

Sindacati e variegata sinistra: a chi tocca fare che cosa?

Se parliamo del Novecento il sindacato ha dato al lavoratore dignità (ci insisto) e anche potere; e pure la sinistra e un pezzo della Dc, malgrado la sciagura della scissione sindacale e della conflittualità che ne è derivata, anche senza l’unità, hanno saputo dare un sostegno attivo, incisivo, alle lotte dei lavoratori. Per fortuna, e soprattutto per merito dei sindacati, la conflittualità si è sempre più attenuata e si è realizzata, se non l’unità (per cui mi sono sempre battuto, e penso con rimpianto all’esempio dato dai metalmeccanici nel 1969) almeno una intesa. Ma c’è un punto essenziale, dirimente, e non risolto: l’introduzione per legge, nel ‘74, della incompatibilità tra incarichi sindacali e incarichi parlamentari. Sino ad allora il sindacato traeva un sostegno, spesso decisivo, dal Parlamento dove erano (o erano stati) presenti e attivi molti autorevolissimi dirigenti sindacali: i comunisti Di Vittorio, Lama, Bitossi, il socialista Santi, tutti dirigenti massimi della Cgil; e come Pastore e Rubinacci della Cisl; altri ancora.

tratto da www.libereta.it

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